Il bullismo in rete è chiamato abitualmente cyberbullismo. Bullo è chi ripetutamente agisce in modo vessatorio nei confronti di un altro, normalmente quasi coetaneo o più giovane. Quando c’è di mezzo Internet, si aggiunge il prefisso “cyber”. È stata approvata una legge per affrontare il problema, anche se, rispetto alle stesure iniziali, è stato ridotto l’ambito di azione e le pene associate: interessante il riferimento al referente in ogni scuola che va letto anche alla luce delle Linee di orientamento per azioni di prevenzione e di contrasto al bullismo e al cyberbullismo [attenzione: il documento riporta il riferimento al sito ormai abbandonato Smonta il bullo: leggere sotto lo status quaestionis] del MIUR diffuse due anni fa.
La nascita del cyberbullismo in Italia
Il primo caso rilevante in Italia, perché ampiamente diffuso dai media, fu nel maggio 2006 quando alcuni studenti di una scuola torinese si accanirono contro un compagno disabile e filmarono l’accaduto pubblicandolo su YouTube. La vicenda è complessa ed è stata a volte amplificata ad arte, senza tenere presenti le testimonianze. Si arrivò anche a condannare nel 2010 in primo grado i dirigenti Google per non aver tolto rapidamente il video dalla rete (rimase in linea varie settimane), ma nel 2012 furono assolti in appello. L’atto violento di quei ragazzi non dovrebbe essere definito “bullismo” perché fu un comportamento isolato e non reiterato. Semmai, il bullismo fu causato dal video perché causava una ripetuta vessazione psicologica nel disabile che sapeva di essere visto da tanta gente. Anche dopo la rimozione del video, dice giustamente l’avvocato del disabile: “Sarebbe anche il caso di smetterla di pubblicare la foto di quello spezzone di video. Lui i giornali li guarda e riconoscersi in quelle immagini significa ogni volta rinnovare un trauma”. Questo ribadisce il problema: se si trasformano i casi di bullismo in notizie giornalistiche si fa del male sia ai colpevoli che alle vittime perché per molti anni (o per tutta la vita) si portano addosso il marchio di infamia o di “debolezza”.
Non siamo capaci di insegnare ai ragazzi la differenza tra “locale” e “globale”. Se è sostanzialmente lecito scrivere un giornalino ironico (ma non di cattivo gusto) sui difetti dei professori e diffonderlo tra i compagni, la stessa cosa diventa diffamazione se è pubblicata in rete o diffusa tra persone che non conoscono quei professori.
No alla globalizzazione del bullismo
Ecco perché sono convinto che il fenomeno bullismo, in rete o no, debba restare confinato all’ambito locale, gestito da professori, dirigenti scolastici e genitori, come si è sempre fatto in passato, cercando di non coinvolgere le forze dell’ordine e tantomeno i media, per non amplificare gli effetti negativi. Non è un fenomeno nuovo: ora se ne parla di più e così nasce anche l’emulazione e si è amplificato grazie anche agli strumenti telematici che illudono il bullo di rimanere anonimo. Ben vengano le iniziative di formazione degli studenti, come la guida del Garante per insegnare la privacy nelle scuole. Però ci vuole una maggiore conoscenza dei meccanismi di Internet per affrontare debitamente i problemi. Una delle conseguenze dell’evento del 2006 fu la costituzione, da parte del Ministro dell’Istruzione, di una Commissione Bullismo-Scuola alla quale fui convocato come esperto di informatica e tutela dei minori. La quasi totalità degli altri componenti erano docenti, medici, psicologi: eravamo pochissimi gli esperti di Internet. Proposi e realizzai, con l’Associazione Centro ELIS, il corso di educazione alla legalità informatica in Sicilia. Riuscimmo a replicarlo nella Provincia di Roma, ma furono infruttuosi i tentativi di ampliarlo ad altre regioni, pur avendo avuto un esito molto positivo, come constatato dai commenti dei partecipanti.
La curiosa storia di Smonta il bullo
Un altro esito di quella Commissione fu l’iniziativa “Smonta il bullo” con la nascita di un portale dedicato e la direttiva del Ministro della Pubblica Istruzione del 5 febbraio 2007. Purtroppo, quando, non molto tempo fa, decisero di cambiare impostazione e passare all’attuale sito www.generazioniconnesse.it al Ministero si “dimenticarono” di rinnovare a maggio 2016 l’acquisto del dominio di “Smonta il bullo” (costo normalmente inferiore ai 10 € l’anno) e quest’ultimo fu comprato dalla tipica azienda che sfrutta la popolarità di siti abbandonati convertendoli in contenitori pubblicitari (non esenti da pornografia). Peccato che in passato lo stesso Ministero avesse suggerito alle scuole di mettere nei propri siti il riferimento a “Smonta il bullo”. Arriva quindi il 15 luglio 2016 la circolare ministeriale urgente che invita a togliere quei riferimenti, per ovvi motivi. Ma chi ha scritto la circolare non si rende conto che in un PDF le citazioni di siti web diventano collegamenti e quindi al suo interno esiste il riferimento (link) che afferma di voler estirpare! Lo stesso collegamento è presente al 7 febbraio 2017 negli archivi del sito del MIUR nonostante la mia segnalazione di qualche mese fa a chi aveva firmato la circolare (ho avuto risposta che avrebbe inoltrato a chi di competenza, non essendo più al MIUR). In questa immagine si vede il risultato di una ricerca Google del 21 dicembre 2016: si può notare, sia pure in spagnolo, il contenuto pornografico del sito, che appare in quest’altra immagine.
In tutto ciò che ho scritto, non ho volutamente citato il nome esatto (URL) del portale “Smonta il bullo” proprio per evitare di continuare a indirizzare gente verso i contenuti negativi attuali.
La “morale” di questa vicenda è che manca ancora una cultura della rete e una conoscenza dei suoi meccanismi che tuteli davvero i minori (e non solo loro). A scuola non si insegna, mentre si insiste a far apprendere tecniche che i giovani sanno imparare da soli senza problemi.
Michele Crudele
Ultimo aggiornamento: 2016-05-20